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venerdì 25 novembre 2011

Lieto Fine?

Mia madre aveva iniziato a dare segni di squilibrio gravi quando avevo all'incirca 15 anni. Ripensandoci, era sempre stata problematica, ma la malattia è venuta fuori soltanto dopo una serie di traumi molto pesanti e devo dire che mia mamma è stata fin troppo forte e molto a lungo, considerato tutto il dolore che ha incontrato nel suo percorso. Oggi sono convinta che, se al tempo in cui ha vissuto quei traumi fosse stata seguita, forse non saremmo arrivati al punto in cui siamo ora. Ma la prevenzione è spesso - lo è stata soprattutto in passato - un'utopia, purtroppo.


L'escalation era stata spaventosa e inesorabile. Come capita a molti, la persona che vive un disagio inizialmente ne attribuisce la causa al partner o ai parenti più prossimi (in parte non nego che molti traumi nel caso di mia madre fossero legati anche a problematiche di coppia, ma questi, purtroppo, inizialmente hanno fatto da schermo al vero problema che si era venuto a creare negli anni: la malattia psichica) e su di lui/lei/loro sfoga tutta la sua rabbia, che invece ha radici più profonde. Credo sia un meccanismo inconscio di autodifesa, lo stesso che spesso riscontriamo anche nei familiari della persona malata che non 'vedono' o 'non vogliono vedere' la malattia. Questo stato di negazione è uno dei maggiori ostacoli alla guarigione e al recupero. E' il nodo fondamentale che vorrei qui mettere in evidenza.


Empaticamente mi metto nei panni di mia madre e di coloro che sviluppano la malattia. E' un trauma ENORME dover fare i conti con il fatto che la propria mente non funziona più come prima e credo sia un dolore paragonabile a un lutto. E' la perdita di una parte di sé, del controllo sulla propria vita, sulle proprie emozioni. Credo che quindi si debba rivedere anche il modo in cui questa prima fase che porta dalla negazione all'accettazione e alla consapevolezza, che può purtroppo durare anche decenni, viene presa in carico. La persona che soffre, così come i suoi familiari, vanno presi per mano in un percorso difficile, irto di ostacoli ma non impossibile, che li porti verso una consapevolezza di malattia e mostri loro concrete prospettive di un recupero del tenore di vita, che sarà con molta probabilità diverso, ma non per questo meno dignitoso.


Nessun paziente psichiatrico e nessun familiare dovrebbe essere lasciato solo a scontrarsi con una malattia così subdola e spaventosa. Perché uscirne si può, anche se per anni ci sentiamo spesso ripetere che è impossibile. Ovviamente, ci tengo a ribadirlo, non si può generalizzare dato che ogni caso è a sé, ma è importante, se ve ne sono, mettere in luce anche i casi con risoluzione positiva, ricordando sempre e comunque che l'equilibrio è una conquista quotidiana e ci si muove su un terreno assai sdruccioloso. Vorrei ringraziare a questo proposito tutte quelle persone bipolari che hanno reso pubblica la loro acquisita consapevolezza di malattia attraverso il proprio blog. E' grazie a queste persone preziose se io, durante l'ultima crisi maniacale di mia madre, non ho gettato la spugna e ho tentato il tutto per tutto. Nel mio percorso, purtroppo, mi era sempre stato fatto credere che mia madre non avrebbe mai potuto rendersi conto del suo stato mentale, che la psicosi non si cura, si può solo tenere a bada con i farmaci, ma che la consapevolezza per pazienti come lei è impossibile. Quando mi sono trovata a leggere le testimonianze di pazienti bipolari consapevoli mi sono detta: perché loro sì e mia madre no? Cosa è mancato? Cosa è andato storto? Se ce l'hanno fatta loro, potrà farcela anche mia mamma! E così, durante l'ultimo ricovero avvenuto in seguito a un doloroso - per lei e per mio padre e me - TSO, approfittando del fatto che lei si trovasse in un ambiente protetto e con la malattia tenuta a bada dai farmaci, le ho parlato a viso aperto, ogni giorno un po' di più. Lì potevo farlo. Lei poteva arrabbiarsi, cambiare discorso, rifiutarsi di ascoltarmi, ma non poteva farmi del male, non poteva più sottomettermi, come a casa.


Le ho parlato con il cuore in mano, giorno dopo giorno, dopo giorno. Avevo paura, ma sentivo che era la mia ultima occasione. Non avrei più avuto la forza per reggere una nuova crisi... non volevo più vivere nel terrore e nell'angoscia. E non volevo rimorsi. Scappare senza voltarmi indietro non avevo - non ancora - voluto farlo, anche se sapevo che se questa occasione fosse andata perduta, sarebbe stato inevitabile. Avevo già dato più di quanto avessi da dare, a rischio della mia stessa vita. E così, per i circa due mesi in cui mamma è stata ricoverata ho seminato, prima lentamente, poi con sempre più convinzione, parlandole in modo diretto, empatico ma deciso, e dando finalmente un nome alla sua malattia. Lei mi ha confessato che era la prima volta che sentiva quella parola. Non stento a crederlo. Andando a rileggere tutte le vecchie cartelle cliniche che ero riuscita in quei giorni frenetici a recuperare non ho trovato traccia di un percorso psicologico abbinato ai farmaci. Niente. C'era sempre scritto: la paziente rifiuta di parlare dell'aspetto psicologico della sua malattia. E chi l'ha avuta in carico passava semplicemente OLTRE. Fortunatamente ci sono anche medici che hanno un diverso approccio, ma non sempre si ha la fortuna di incontrarli. Così non è stato per mia madre, per molti anni.


Io non sono un medico psichiatra e non intendo assolutamente sostituirmi a chi ha studiato per anni una branca della medicina molto complessa e delicata, ancora fitta di misteri, per molti versi, ma da figlia e da potenziale possibile paziente (e con questo intendo dire che potrebbe capitare a ognuno di noi e che è fondamentale non dimenticarlo affinché le cose migliorino sempre di più in questo campo) mi sono chiesta quante inutili sofferenze e rischi concreti ci sarebbero stati risparmiati se al tempo - come oggi è emerso da molti studi sull'argomento - si fossero unite la terapia farmacologica e un percorso psicologico che aiutasse paziente e familiari a prendere consapevolezza e ad accettare la malattia e le sue conseguenze, in modo da poterci convivere al meglio e collaborare, insieme, al benessere della persona e di tutto il nucleo familiare.


Mio padre, poco dopo l'uscita di mia madre dalla clinica anni fa, a causa dei problemi anche di ordine economico e pratico che si era trovato a dover affrontare da solo (la malattia aveva portato mia madre a chiedere e ottenere la separazione in tribunale, con l'affidamento mio a lei, dato che riusciva a nascondere molto bene la malattia all'esterno), uniti alla preoccupazione per me, sola in casa con una madre in stato di delirio, alla solitudine e all'isolamento in cui spesso famiglie con questo tipo di gravi problematiche piombano inesorabilmente, ha poi iniziato a soffrire anche lui di depressione. Ho rischiato di perderlo, se solo non fossi rientrata a casa sua in tempo, spinta da un forte istinto che in me gridava di affrettarmi. Anche in questo caso una prevenzione, un sostegno mirato, avrebbero evitato l'ennesimo - sfiorato - trauma. In tutto questo non c'è stato nessuno che abbia mai pensato di prendermi da una parte, parlare con me, spiegarmi, assistermi. Niente. Ho dovuto fare da sola. O con l'aiuto di persone vicine alla famiglia, ma senza alcuna competenza specifica. Non esiste - a quanto ne so io - nel nostro paese una specializzazione in questo senso.


Si deve, non mi stancherò mai di dirlo, cominciare a tener conto del fatto che i pazienti psichiatrici hanno dei figli, molto spesso. Mettiamo il caso che una persona che si trova in grave stato di delirio in mezzo alla strada venga ricoverata d'urgenza. Nessuno pensa che questa persona possa avere dei figli anche piccoli che restano improvvisamente soli. Io sono stata, per così dire, fortunata. Ero già adolescente e in grado di badare, per quanto possibile, a me stessa. Se avessi avuto cinque anni? Come avrei potuto fare? E sono tanti invece coloro che, meno fortunati di me, si sono trovati in circostanze gravi sin dalla tenera età. Per questo, sull'esempio di associazioni nate all'estero ad opera di figlie, oggi adulte, di pazienti psichiatrici, credo sia assolutamente innegabile l'urgenza di dare il mio contributo, per quanto mi è possibile, per seminare consapevolezza e squarciare questo velo di invisibilità in cui siamo lasciati da tanto, troppo tempo.


Oggi mia mamma assume di nuovo le medicine e fra noi possiamo parlare della malattia apertamente, per la prima volta dopo 16 anni, anche se condivido e rispetto la sua scelta di non parlarne al di fuori della famiglia, comprendo il fatto che ne provi vergogna e imbarazzo e cerco, per quanto possibile, di rassicurarla. Non mi illudo che duri in eterno questo nostro nuovo equilibrio raggiunto e non nego che tuttora persistono problemi di cui dobbiamo tenere conto, essendo io l'unica persona che si può prendere cura di lei, ma questo è il segnale che il LIETO FINE si può scrivere, ma solo se tutti i protagonisti della storia sono messi nelle condizioni di fare la propria parte. Le famiglie, da sole, non ce la possono fare. E se questo blog può servire, nel suo piccolo, a piantare dei piccoli semi di consapevolezza, sono felice di averlo aperto. E spero di avere la forza di portarlo avanti. Questa sofferenza non sarà stata inutile se, passando di qua, un figlio o una figlia, un marito, un padre, una madre si sentiranno meno soli e potranno ritrovare la speranza di potercela fare e il conforto di sapere che non sono gli unici, che ciò che provano (rabbia, sensi di colpa, disperazione) è comune a tutti coloro che vivono o hanno vissuto questo dramma.


Ringrazio di cuore, una volta ancora, tutti coloro che mi hanno scritto, in pubblico o in privato. Voi mi date la forza di continuare.




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12 commenti:

Anonimo ha detto...

Carissima, sono figlia anche io di madre bipolare e ti capisco BENISSIMO in toto e anche di piu'....purtroppo sei costretta a crescere piu' del dovuto bruciando le tappe e sicuramente sei diventata una ragazza forte :-)....mi intenerisce il cuore leggerti in situazioni dove son passata anche io :-)...( mia mamma non c'e' piu' da anni)...se posso esserti utile piu' che volentieri ..a volte scambiare anche solo opinioni o fare quattro chiacchere con una persona che ha vissuto il tuo stesso percorso puo' aiutare ...un forte abbraccio .
Cristiana

Electric Ladyland ha detto...

Grazie mille, Cristiana! Mi ha fatto molto piacere trovare il tuo commento oggi.

Ti abbraccio forte anch'io.
Stefania.

Anonimo ha detto...

Io ho sia la madre bipolare che la sorella molto grave. Un incubo perché eravamo solo noi tre dopo la morte di mio padre. Menomale avevo la nonna perché loro mi aggredivano continuamente con cattiveria poi si sbranavano fra loro. Sono cose che segnano e ti rovinano la gioventù .

Anonimo ha detto...

Piuttosto avete visto le Iene che prendono in giro la Tommasi in stato delirante?!!! Che vergogna per fare audience deridere una malata

Electric Ladyland ha detto...

Purtroppo è così. La cosa più terribile per noi di questo grave disturbo - quando vengono rifiutate le cure - è l'aggressività che scatena in chi ne soffre e che finisce per essere riversata (anche) su di noi, senza una reale possibilità di difesa. Non c'è muro, contro risposta o fuga che tenga. Sono lame che si conficcano in profondità dentro l'anima, in grado di attraversare qualunque tipo di barriera.

Non ho visto l'episodio delle Iene che ci segnali, ma ho notato anche io che nei media la malattia mentale grave è raccontata malamente, facendo leva sui soliti stereotipi (la follia come realtà marginale che al contempo spaventa e affascina e che il più delle volte esplode nel racconto collettivo soltanto quando si estremizza in terribili fatti di cronaca) oppure utilizzando i termini che la riguardano in modo semplicistico, come uno dei tanti aggettivi buttati un po' a casaccio che entrano a far parte del linguaggio comune, perdendo tutto il mondo complesso e articolato che vi si cela dietro.

Sento quasi quotidianamente pronunciare la parola "bipolare" (escludendo l'ambito politico, in cui la parola è utilizzata correttamente) a sproposito, per condire a mo' di battuta un discorso che tende a sottolineare le stranezze comportamentali di qualcuno o qualcuna. Anche da questo punto di vista occorrerebbe una svolta che vada nella direzione di un arricchimento, senza scadere nel bacchettonismo, che non mi è mai piaciuto, ma restituendo dignità e profondità a una condizione umana molto diffusa all'interno di insospettabili mura domestiche (oltre che nel mirabolante mondo del jet-set, dove assume persino tinte glamour!).

Si deve iniziare a raccontare la malattia mentale anche nel suo lato quotidiano, inserito nella società, smettendo di tenerla a margine e nominarla superficialmente solo quando si vuole fare "sensazionalismo". Questo piccolo spazio in fondo è nato anche per questo ed è grazie a voi che leggete e commentate se potrà col tempo fare molto.

Un abbraccio!

Anonimo ha detto...

ciao sono serena, ho 22 anni e ho da sempre visuto con una sorella bipolare. capisco benissimo che quando la malattia interessa un genitore questo comporta una serie di ripercussioni dirette sulla vita dei figli ma mi ritrovo molto nelle tue parole quando dici di essere stata molto spesso la persona sui cui tua madre ha riversato tutta la sua rabbia la sua infelicità il suo malessere.
Mia sorella si ammalò di bipolarismo,come spesso accade, in adolescenza sottoforma di una grave depressione iniziale. Da allora in poi io, bambina di dieci anni, sembravo essere diventata la causa di ogni sua infelicità,ogni suo insuccesso. Ogni cosa che poteva suscitarmi gioia diventava la sua infelicità e per questo andava troncata sul nascere a tutto i costi e con qualsiasi mezzo soprattutto la violenza.
Oggi che ho 22 anni e lei 28 abbiamo da poco attraversato il periodo del suo primo e dolorossissimo, per me mia madre e mio padre, ricovero obbligatorio. tanto doloroso che mio padre dopo averla vista in quelle condizioni disperate è stato colpito da una amnesia globale transitoria che aggiunta a problemi di salute seri(aneurisma cerebrale) gli sta provocando una forte depressione.
anche mia mamma quando io avevo 16 anni affrontò uno di questi momenti terribili dovuti forse al senso di impotenza ed alla disperazione quotidiana di chi vive con un bipolare.
Oggi vivo nella paura di svegliarmi un giorno e non avere più la forza di affrontare le mille situazioni che girano intorno ad una famiglia colpita da questi tipi di malattia mentale.
mi chiedo quando sarà il mio turno?
Posso dire però, che nonostante tutto il male tutto il dolore che mia sorella è stata in grado di causarmi non ce l'ho mai fatta a chiudere gli occhi e voltarmi dall'altro lato.Quando in quell'ospedale a 1000 kilometri da casa l'ho vista persa in balia della sua malattia in me è scattato un senso di protezione che ha fatto passare in secondo piano mille altre situazioni: università, amici, fidanzato.
questo per dire che bisogna essere più forti del proprio individualismo e a volte mettere anche da parte se stessi e il proprio orgoglio per aiutare queste persone che la malattia non l'hanno scelta ma che sono stati semplicemente meno fortunati di noi.
un abbraccio,
serena

Electric Ladyland ha detto...

Cara Serena,

è proprio così, molto spesso la malattia bipolare porta la persona che ne soffre a riversare la sua rabbia sui propri cari, nel caso della mia famiglia soprattutto su mio padre - per effettive colpe del passato, su cui però la sua mente continuava a tornare incessantemente anche a distanza di anni, come se il tempo non fosse mai passato - e poi anche su di me, se prendevo le sue difese o se la contrariavo nelle sue manie. Oltre ai sintomi più gravi ed evidenti la malattia nel caso di mia madre - come credo anche in altre persone, ciascuna a suo modo - prendeva anche pieghe apparentemente di poco conto, ma in realtà logoranti perché estremamente pervasive sul piano della vita familiare di tutti i giorni. Dalla più piccola banalità potevano nascere scenate di una inaudita violenza psicologica, a tal punto da sentirsi condannare per inezie che nelle altre famiglie erano invece la normalità, senza poterne poi nemmeno parlare fuori casa per la vergogna.

Per farti un esempio, mai era consentito svegliarsi oltre l'orario da lei stabilito, pena violenti attacchi di rabbia come se avessi commesso chissà quale grave delitto. Il tempo da trascorrere in bagno non doveva mai superare una certa soglia altrimenti sarebbero scattate grida e bussate nevrotiche sulla porta per farti uscire immediatamente, non importa cosa stessi facendo, perché del bagno aveva in quel preciso momento bisogno lei. Mai più di un asciugamano era concesso per andare in spiaggia, uno per stendersi e uno per asciugarsi dopo la doccia, me ne dovevo far bastare uno, altrimenti a suo dire non avrebbe avuto posto dove stenderli una volta lavati e guai a insistere, pena una litigata cosmica con conseguente invito ad andarmene di casa perché figlia viziata e scansafatiche. Ricordo ancora pietanze standardizzate che si ripetevano con ciclicità prevedibile, sempre uguali, e dalle quali non si poteva sterzare per un po' di novità, se non dopo battaglie infinite e logoranti. Questo è solo un piccolo elenco delle tante altre piccole e grandi 'amenità' che rendevano la vita quotidiana sotto lo stesso tetto un vero inferno negli anni in cui mia madre aveva smesso di curarsi.
[CONTINUA...]

Electric Ladyland ha detto...

Fortunatamente ora che ha ripreso le cure queste cose sono un lontano ricordo - però ancora vivo - e da quando abito per conto mio il nostro rapporto è lentamente migliorato e ora anche mia mamma ha ritrovato il gusto delle novità e quando la vado a trovare - per tornare alle piccole cose quotidiane che per altri sono scontate, ma non per noi - mi fa trovare un piatto speciale e un dolce o delle fragole da mangiare insieme.

E' bello vederla di nuovo concedersi il piacere, che prima si negava, tranne quando esplodeva incontrollato e devastante durante le fasi maniacali, con conseguente dilapidazione del conto in banca, proprio per mano sua, normalmente così risparmiosa e morigerata. Guardandosi indietro - ora che abbiamo raggiunto questa nuova fase e finalmente possiamo anche parlarne, fatto prima impensabile! - mi ha confessato di vergognarsi terribilmente per certe sue 'follie' (anche se non parliamo mai del male che mi ha fatto, preferisco evitarglielo, ne soffrirebbe troppo e non se lo merita, ora che è consapevole della malattia e sembra aver compreso che con la terapia è più felice e di riflesso lo sono anch'io).

Quello che state vivendo tu e la tua famiglia è un vero calvario e ti ammiro per la tua scelta di stare vicina a tua sorella, ma ho imparato sulla mia pelle che niente e nessuno deve arrivare a compromettere oltre una certa soglia - soggettiva e non universale - il nostro benessere e la nostra salute. Aiutare i nostri cari, ma mai a costo della nostra stessa vita. Loro per primi non lo vorrebbero e se la soglia massima che ognuno di noi ha venisse oltrepassata, potremmo non essere più nemmeno in grado di esser loro d'aiuto. E' importante l'individualismo secondo me quando è finalizzato ad aiutarci nel preservare la nostra energia - che non è inesauribile - in modo poi da poter poi - se le nostre forze ce lo consentono - sostenere e aiutare chi necessita del nostro appoggio. Non mi sento di biasimare chi sceglie di voltarsi dall'altro lato, perché purtroppo in alcuni casi non credo sia semplice egoismo, ma questione di sopravvivenza. Il carico, se è esagerato, non può essere tenuto sulle spalle da una sola persona o nucleo familiare e spero davvero che un giorno potremo contare su un maggior sostegno da parte delle istituzioni.

Ti abbraccio anch'io e auguro a te e alla tua famiglia di ritrovare la serenità e che tua sorella possa trovare dei buoni medici in grado di darle la cura più giusta per lei e aiutarla nel difficile cammino verso la consapevolezza di malattia.

Stefania.

Denise ha detto...

...che fortuna averti trovata, davvero, grazie!

Electric Ladyland ha detto...

Grazie a te :-)

Anonimo ha detto...

Questa cosa del cibo sempre uguale è capitata anche a me. Pensavo di essere l'unica.

Ciao a tutti
Lucia

Electric Ladyland ha detto...

Anch'io credevo che capitasse soltanto a casa mia... da pochissimo ho scoperto che è un aspetto comune a molte famiglie in cui la madre è affetta da patologia psichiatrica.

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